non sapevo dove postare...
lo faccio qui, probabilmente è un po' OT, ma avevano qualcosa in comune con chi è appassionato di fotografia.
http://kabul.corriere.it/2010/10/i_paparaz...a_violenza.htmlI paparazzi della violenza
Davide Frattini
João Silva era l’unico del Bang-Bang Club a non essere mai stato ferito. Ha fotografato il cadavere dell’amico Ken Oosterbroek, ammazzato da una pallottola vagante, sta a fianco di Greg Marinovich ogni volta (quattro) che viene colpito, ha accompagnato il feretro di Kevin Carter, ucciso dalle ferite che uno si porta dentro e dal monossido di carbonio esalato dal motore del suo pick-up rosso: aveva collegato una canna di gomma al tubo di scappamento. Sabato, in Afghanistan, embedded con le truppe americane per il New York Times, João Silva ha perso le gambe su una mina sepolta nella sabbia dai talebani.
Il Bang-Bang Club nasce quando quattro giovani sudafricani bianchi decidono di documentare le atrocità nei sobborghi di lamiera e un settimanale di Johannesburg si inventa quel nome per i «paparazzi» della violenza. Il Bang-Bang Club muore quando muoiono due dei suoi membri. Quattro anni, tra il 1990 e il 1994, dalla liberazione di Nelson Mandela alla sua elezione, primo presidente nero del Paese. In mezzo, i premi Pulitzer, gli orrori, la desolazione e una storia che non finisce come non finiscono le guerre.
A terra, dilaniato, Silva ha alimentato la leggenda del gruppo (il mito è adesso diventato film con Ryan Philippe tra i protagonisti) chiedendo ai soldati che lo soccorrevano di passargli il pacchetto delle sigarette e continuando a fotografare mentre cercavano di fermare l’emorragia. Come aveva continuato a scattare quando Oosterbroek viene centrato dal proiettile, nella township di Tokoza. L’idea che quello sia stato l’ultimo gesto per l’amico, fotografarlo da morto, l’ha tormentato. «Anch’io sono stato ferito quel giorno. João mi ha messo al riparo, poi è corso da Ken — ricorda Greg Marinovich —. Ha preso poche immagini, diciamo venti, con un’esposizione di 1/250. Su dieci minuti, vuol dire che ha fotografato per meno dell’1% del tempo. Eppure la gente si è convinta che fosse preoccupato solo di quello e non di come stessimo noi».
Anche Kevin Carter viene chiamato avvoltoio. Un avvoltoio con l’obbiettivo che lascia passare mezz’ora per inquadrare una bambina ingobbita dalla fame, mentre striscia per cercare di raggiungere un centro di aiuto nel Sudan devastato dalla carestia. Un avvoltoio, vero, tallona la piccola, ha scommesso che non ce la possa fare. «Speravo che l’uccello aprisse le ali per ottenere un effetto più forte, ho aspettato e aspettato - ha raccontato Carter -. E’ stato inutile, ho scattato e poi l’ho cacciato via con una pedata». Quando la foto viene pubblicata in prima pagina sul New York Times, tutti vogliono sapere che fine abbia fatto la bimba. E’ sopravvissuta? «Non ne ho idea, me ne sono andato sotto un albero a piangere, parlare con Dio e pensare a mia figlia». Nel maggio del 1994, per quell’immagine vince il Pulitzer.
La ragazzina diventa il suo incubo. «L’uomo che sta lì a mettere a fuoco la sofferenza della bambina — scrive il St. Petersburg Times — è il vero predatore sulla scena». Due mesi dopo aver ricevuto il premio più importante per un giornalista, Carter guida il suo pickup verso il Braamfonteinspruit, il ruscello dove andava a giocare da bambino, parcheggia sulla riva e si uccide. Oosterbroek era stato ammazzato in aprile. Kevin lascia un biglietto sul sedile del passeggero: «Sono depresso... senza telefono... soldi per l’affitto... soldi per gli alimenti a mia figlia... soldi per i debiti... soldi!!! Sono perseguitato dai ricordi degli omicidi e dei cadaveri e della rabbia e del dolore... dei bambini affamati o feriti, degli uomini folli dal grilletto facile, spesso la polizia, dei boia. Vado a raggiungere Ken, se sarò così fortunato».
Kevin che si era scolato una bottiglia di bourbon perché aveva perso uno scatto importante (impegnato a cambiare il rullino, mentre un poliziotto nero freddava un estremista bianco), Kevin che fumava marijuana mischiata con il Mandax per sedare l’angoscia, si portava dentro i dilemmi che João Silva ha portato in Iraq e Afghanistan. «Non siamo drogati di adrenalina. Non c’è adrenalina nel camminare in mezzo ai cadaveri per provare a documentare la realtà di un genocidio — ha detto un anno fa Silva al collega Michael Kamber —. Ho visto così tanta gente morire o restare ferita, non escludo che un giorno toccherà a me, però sento l’obbligo come giornalista di testimoniare quello che succede. Credo che il messaggio sia importante. Magari nessuno cambierà opinione o prenderà una posizione, ma il messaggio è importante».